Eravamo gli immortali

J-L-Borges

Era l’ultima ora di lezione di un venerdì. Sarà stato maggio, perché la luce che entrava dalle finestre era forte e io indossavo una camicia. La professoressa di Italiano doveva interrogare due compagni intenzionati a recuperare un’insufficienza, e per evitare che nel frattempo noi disoccupati disturbassimo ci distribuì da leggere una paginetta fotocopiata. Si trattava un breve racconto di uno scrittore argentino fuori programma, tale Jorge Luis Borges, intitolato La casa di Asterione. Di solito non è che mi facessero impazzire le proposte di lettura della prof, ma questo testo era proprio forte. Era diverso da qualsiasi cosa avessi letto fino ad allora. Collocai subito Borges nella categoria dei geni, e nel giro di una settimana l’avrei eletto Mio Scrittore Preferito (carica che ricoprì per circa tre anni).

Quel pomeriggio andai in Biblioteca Comunale. Nello scaffale della Letteratura Latino-Americana trovai L’Aleph, il libro che conteneva La casa di Asterione, e lo presi in prestito. Tornato a casa, mi misi subito a leggere. Il primo racconto si intitolava L’immortale. Era intricato e surreale, ma ricco di frasi memorabili. Una di queste era: “Tutto tra i mortali ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale.” Eccezionale. Non tanto per il contenuto, che in fondo non è così originale, ma per il modo di esprimerlo. Si poteva dirlo meglio? L’altra frase che imparai a memoria era questa: “Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte”. Questo pezzo mi fece riflettere, perché considerava l’immortalità non come una condizione oggettiva di vita senza termine, ma come uno stato di coscienza, come la condizione soggettiva di chi non sa di dover morire.

Se le cose stavano così, allora in un certo senso anche noi diciannovenni della Quinta A eravamo Immortali. Certo, ignoravamo la morte soltanto nel secondo significato di ignorare, che è fingere di non conoscere, non tenere in considerazione, ma bastava per sentirci potenti e invincibili come degli Immortali. Avevamo l’immortalità dei giovani, che immaginano un futuro infinito in cui ogni cosa è possibile. Con tutto quello che stavamo cominciando, potevamo forse preoccuparci di quando sarebbe finito? C’era troppo da fare: capire come conservare la sufficienza in latino senza studiare troppo, scoprire come farci notare dalla bionda della Quarta B, convincere la mamma a lasciarci la 126 il sabato sera anche se avevamo la patente solo da un mese, imparare a memoria le canzoni dei Pink Floyd, discutere su quale partito votare alle elezioni, migliorare il rovescio per battere Alessandro a tennis.

Ma la giovinezza passa, e l’energia dell’immortalità piano piano si affievolisce. Adesso che Wish you were here l’ho imparata, che il partito mi ha deluso, che il rovescio è migliorato ma con Alessandro continuo a perdere, e che la bionda di Quarta B me la sono dimenticata, non è più la stessa cosa. È l’effetto del tempo, di tanti piccoli eventi sparsi qua e là che ti tolgono qualcosa. Poi, ogni tanto, capita anche qualche evento più grande.

Ero in ufficio davanti al computer a guardare delle statistiche di acquisto quando mi suonò il cellulare. Era Pierluigi. Non aveva la solita voce. Mi chiedeva se avevo saputo di Monica.

Chi? Monica? Quella Monica?

Terminai la telefonata, e mi chiusi in bagno a piangere. Erano anni che non la vedevo, ma Monica era una di noi: era una compagna della Quinta A, faceva parte degli Immortali. Perché Monica? Perché Monica? Aveva solo quarantatré anni, come si può morire a quarantatré anni? Pierluigi mi aveva detto che aveva ceduto a un cancro al fegato, ed era una cosa inconcepibile. Il cancro al fegato dovrebbe essere una malattia per alcolisti, così come quello ai polmoni dovrebbe essere riservato ai fumatori, ma Monica non aveva di questi vizi. Conoscevo Monica come una donna forte, sportiva, che conduceva una vita sana. Perché allora era stata colpita da una malattia così tremenda? Non trovare un causa mi disorienta, mi frastorna. Ecco una cosa che mi è rimasta da quando ero Immortale: non riesco a tollerare il caso, le cose che succedono senza un motivo. Monica non c’era più. Era maledettamente ingiusto, e l’ingiustizia amplifica il dolore, perché lo moltiplica per la rabbia.

Monica era la più carina della classe, ma sembrava che la cosa non le interessasse, non faceva la snob. Per un periodo fu la mia vicina di banco. La tormentavo parecchio, come capita facciano i timidi con chi gli è simpatico. Le nascondevo la merenda, le scaricavo le briciole di gomma delle cancellature giù per la schiena, le sbattevo la polvere di gesso del cancellino sulla sedia. E altre stupidaggini del genere. Tanto lei non era credibile quando si arrabbiava. Cercava di corrugare le sopracciglia per fare l’indignata, ma finiva sempre per sorridere. Sorrideva nel modo giusto, Monica: con tutto il viso, come una bambina.

Per quanto mi sforzi, riesco a ricordarla soltanto mentre sorride. Ora che ci penso, tutte le persone che mi sono state care e non ci sono più mi appaiono alla memoria mentre sorridono. I miei nonni seduti sul divano con le mani in grembo stanno sorridendo. I miei cugini mi salutano per strada e mi sorridono. Anche i miei zii li vedo a pranzo mentre sorridono. Sarà un problema della mia memoria, ma mi piacerebbe pensare che mi appaiono sorridenti perché dove si trovano adesso sono felici. Oppure potrebbe succedere così perché è attraverso i sorrisi che le anime si aprono e si conoscono. Ma non possiamo saperlo.

Ci ritroviamo in tanti della Quinta A al funerale. Ci salutiamo con pacche sulle spalle e mezzi sorrisi a testa bassa. Non ci vedevamo da più di dieci anni. Forse siamo un po’ più normali di quello che credevamo di diventare, ma a parte qualche capello in meno e qualche chilo in più, non siamo cambiati tanto. Dopo la funzione, mentre il corpo di Monica se ne va verso la cremazione, ci fermiamo a parlare nella piazza davanti alla chiesa, e stiamo lì un’ora, sotto il sole, a raccontarci. C’è anche Cristian, quello più propenso alle meditazioni esistenziali. Non si smentisce, e poco prima di lasciarci se ne esce con questa riflessione: “Sai qual è il nostro problema? Che non ci chiediamo più se siamo felici. E tutto il tempo che da giovani passavamo a considerare le possibilità, adesso ci va via dietro alle responsabilità.” Non lo so se ha ragione, ma forse ha detto qualcosa che ha a che fare con la fine dell’immortalità.

È ora di tornarcene a casa. Strano, ma dopo quasi un quarto di secolo c’è ancora qualcosa che ci lega, siamo ancora una classe. Noi eravamo gli Immortali. Ci salutiamo abbracciandoci. Monica ci ha fatto reincontrare. Monica, che per me sorriderà sempre. Con tutto il viso, come una bambina.

Zio Wiggily

3 Risposte a “Eravamo gli immortali”

  1. Mi piace tanto questo scritto, mi chiedevo cosa aspettassi per pubblicarlo qui. 🙂
    L’hai riletto e ritoccato, o postato tale e quale?

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