La piratessa e Giove

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Pubblicato sulla rivista CRACK n. 15, maggio 2023


Lo so, è una cosa da immaturi, ma ancora adesso, quando devo incontrare una donna che non ho mai visto prima, finisco sempre per augurarmela ventenne, bellissima, single e propensa a scoprire in me motivi di forte attrazione. È per questo che, appena vedo Agnese, la trovo una delusione.

Intanto, avrà almeno quarant’anni, e l’eventuale bellezza, pur non smentita da nessun particolare del suo aspetto che si possa definire brutto, si perde in una generale trascuratezza. Indossa una poco femminile tuta beige con stampato davanti un gatto arancione, e i lunghi capelli scuri, tra i quali serpeggia qualche isolato capello bianco, sono raccolti con un mollettone di plastica rossa scolorita. Il viso largo non ha tracce di trucco, mentre sotto agli occhi verdi si cullano delle piccole occhiaie da insonne. Non è il mio tipo, insomma, ma in fondo non è che ci devo fare amicizia.

“Ciao” mi fa, allargando un braccio per invitarmi a entrare. Strofino con energia i piedi su uno zerbino verde rovescio, con la scritta Welcome che si legge da dentro verso fuori, e obbedisco.

Mi ritrovo in un piccolo soggiorno poco riscaldato impregnato di un profumo strano, denso, che ha qualcosa di legnoso e speziato. Sopra un mobile c’è un televisore che trasmette Pinocchio di Walt Disney, ma senza audio, mentre sul divano bianco di fronte riposano un tigrotto di pelouche e un libro aperto. Sulla parete opposta all’entrata c’è la cucina, pure bianca. Molto vuota, per essere ora di cena. Il resto del soggiorno è occupato da una libreria con libri in doppia fila e da un piccolo tavolo quadrato con sopra l’origine del profumo misterioso: una tavoletta porta incenso con mezzo bastoncino fumante.

“Il telescopio è fuori in terrazzo. Visto che stasera il cielo è sereno e c’è uno spicchio di luna, puoi provarlo,” mi propone Agnese, e così dicendo si dirige verso la porta-finestra di fianco alla cucina. Fuori ci sono tre gradi, ma lei esce com’è, con la sua tutina beige col gattone e nient’altro, e io la seguo. Sul terrazzo siamo accolti da un’aria gelida che mi fa venir voglia di mettermi il berretto che ho in tasca e calcarmelo fin sotto le orecchie, ma vedendo lei sciogliersi i capelli resisto. Il terrazzo è grande e il telescopio è posizionato in un angolo.

“È il tuo primo telescopio?” mi chiede.

“Sì, finora ho guardato il cielo solo a occhio nudo.”

“Mi sono divertita molto con questo rifrattore,” dice Agnese mentre armeggia con le manopole della montatura equatoriale tenendo l’occhio appoggiato al cercatore. “La prima volta che sono riuscita a vedere la macchia rossa di Giove mi sono proprio emozionata. Vuoi guardare?”

Lei si scansa e io prendo il suo posto. Mi sento uno studente, e penso che piacerebbe anche a me vedere su Giove la più grande tempesta del sistema solare. Intanto guardo dentro l’oculare e mi appare la superfice bianca e cosparsa di crateri della Luna. Non l’avevo mia vista così, dal vero, con tutte quelle ombre e quelle rocce e quella polvere. Tutto già visto per televisione o sui libri, d’accordo, ma attraverso un telescopio è diverso: quella è la luna proprio in quel preciso momento, ed è solo per me. Dopo qualche secondo mi stacco dall’oculare. Agnese è appoggiata con le mani al parapetto del terrazzo, e guarda verso la strada.

“Come mai hai deciso di venderlo?” le chiedo.

“Vedi tante cose, tu, in cielo, da questo terrazzo? Ci sono lampioni ogni due metri, e i giardini delle case sono pieni di palle bianche, fari, torce…” Si gira verso di me. Mi chiedo come faccia a non gelare vestita così. Domani avrà la bronchite. “Lo sai che i nostri occhi dopo una mezz’ora di buio aumentano di centinaia di volte la sensibilità alla luce? Potrebbe restare tutto buio, e potremmo muoverci lo stesso. Invece no, abbiamo terrore dell’oscurità, vogliamo sempre tutto perfettamente illuminato. E siccome la luce ci serve a vedere le cose vicine, finisce che ci perdiamo quelle lontane. Se vuoi puoi cambiare oculare, sono nel vassoio del treppiede.”

Accolgo l’invito. Tolgo con cautela l’oculare da venticinque millimetri dal diagonale di osservazione, lo ripongo nella sua custodia, e lo sostituisco con un dieci millimetri. Quando torno a guardare, non trovo più la luna, ma con un piccolo lavoro sulle manopole della montatura riesco a inquadrarla di nuovo. E stavolta ruoto anche il focheggiatore per rendere l’immagine più nitida. Sono attratto dal limite, dal confine tra la zona illuminata e la zona d’ombra sulla superficie lunare. È su quella linea che si colgono meglio i dettagli e la conformazione del terreno, che si distinguono con maggiore chiarezza le increspature del suolo e i bordi dei crateri.

Intanto Agnese mi spiega: “Prima non stavo in centro, abitavo fuori, in una casa isolata. Là era bello, nelle serate di cielo limpido, puntare pianeti e nebulose. Una volta con un po’ di pazienza ho beccato persino una cometa di magnitudo nove: è stata una bella soddisfazione! Qua invece non riesco più a vedere niente. Fra qualche anno magari mi trasferirò in montagna, in una baita isolata, e allora mi prenderò un telescopio nuovo bello grosso e tornerò a guardarmi il cielo.”

Mi sollevo dal telescopio e ci giro intorno, fingendo di valutarlo. Per me va bene, ma quando compro cerco di non mostrarmi troppo entusiasta del prodotto. Agnese si sporge dal parapetto per guardare di sotto, e così facendo le si solleva la felpa dietro, rivelando una fascia di pelle sulla zona lombare. Sorpresa: larghi segni neri geometrici, parte di un disegno più grande che si direbbe essere un labirinto, le attraversano la schiena da un fianco all’altro. Chi se lo sarebbe aspettato un tatuaggio di quelle dimensioni sulla candida pelle della signora Agnese?

“Cosa dici, te lo porti via?”

“Sì, può andare.”

“Ok, allora possiamo tornare dentro,” dice lei con calma, e intanto alza e distende le braccia come capita di fare a me quando sbadiglio. Unisce le mani in alto, e curva la schiena all’indietro come per fare dello stretching. Per un attimo le si scopre qualche centimetro di pancia bianca, e anche da questa parte mi mostra qualcosa di inaspettato: una larga cicatrice le sale obliqua verso il fianco destro. Non è lineare come un taglio chirurgico, sembra più una ferita, è fatta a C. Dietro un tatuaggio e davanti una cicatrice: e da dove arriva questa, da Mompracem?

Afferro il telescopio, entro e lo sistemo dietro al divano. Alla televisione c’è Pinocchio che gioca a biliardo con Lucignolo. Agnese apre i collari e stacca il tubo ottico, poi accorcia le gambe del treppiede e lo chiude: ci sa fare. Mi sembra arrivato il momento degli affari, così estraggo il portafoglio dalla tasca interna della giacca. Di solito quando compro merce usata chiedo sempre degli sconti, ma stavolta mi pare fuori luogo. E poi, nuovo un telescopio così costerebbe il doppio dei trecento euro chiesti nell’annuncio. Le porgo sei banconote da cinquanta, ma lei ne prende solo cinque. Wow, è il mio giorno fortunato.

“Grazie. Allora io intanto porto il treppiede in macchina.”

Dopo due minuti sono di ritorno. La porta dell’appartamento è rimasta socchiusa. Entro, ma Agnese non c’è. Chiudo il portone sbattendolo un po’ per farmi sentire. “Arrivo subito,” mi dice da dietro una porta.

Mentre la aspetto, mi accorgo di un collage di foto appeso al muro. Sono scattate in posti diversi, spiagge, montagne e grandi città. In tutte le fotografie c’è una ragazza carina che somiglia ad Agnese, ma più magra, con i capelli corti e un piercing ad anello sulla narice sinistra. In alcune è accompagnata da un’altra ragazza, bellissima, bionda e con degli occhioni ipnotici alla Wynona Ryder. Della dozzina di ambientazioni che ci sono, riconosco soltanto l’Empire State Building e il Grand Canyon.

“Quelle sono di quando ero giovane. Avevamo vent’anni, io e Anna,” dice rientrando in soggiorno. Io a trenta non sono mai stato più lontano di Londra, penso.

“Complimenti.”

“Avevamo organizzato di fare il giro del mondo in una trentina di tappe,” spiega senza enfasi, come fosse un viaggio che fanno tutti a vent’anni. Io continuo a osservare le fotografie, e indugio ingenuamente su una in bianco e nero di un tuffo da uno scoglio mentre il sole tramonta. Dopo qualche secondo mi accorgo che la tuffatrice non indossa un costume, e allora distolgo subito lo sguardo.

“Anche se non si vede niente, quella la tolgo quando viene mia madre,” dice Agnese. Cavolo, non le sfugge niente. Le spuntano delle piccole fossette sulle guance, quando sorride. Simpatiche. “Quello è stato il mio periodo migliore. Come si dice, quello che ricorderò quando sarò vecchia… cioè già adesso,” scherza strabuzzando gli occhi.

“Quanto ci avete messo, a fare il giro del mondo?” chiedo, cercando di togliermi l’impronta della tuffatrice dagli occhi.

“Abbiamo fatto una dozzina di tappe: l’America, dagli Stati Uniti al Cile, poi l’Australia, e infine ci siamo fermate in Malaysia, a una ventina di chilometri da George Town, per la precisione.” Dà un’occhiata alla televisione. “La storia non mi piace, ma i disegni sì,” commenta guardando Pinocchio in fondo al mare. “Non è che ci siamo fermate di nostra volontà… abbiamo avuto un incidente: abbiamo sbattuto contro un furgone. Un bel furgone blindato addetto al trasporto valori, pieno di sacchi di banconote e monete d’oro. Abbiamo fatto un bel botto. Noi con lo scooter, e loro nel furgone: indovina chi si è fatto più male?” Ora nel mare di Pinocchio è apparsa anche la balena. Che poi sarebbe stata un pescecane, nella storia vera. “Io mi sono trovata un pezzo di lamiera piantato nella pancia, ma mi sono ripresa in un paio di mesi. Anna invece no. Dopo il coma, non è più stata quella di prima. Ha anche perso un occhio.” Abbasso lo sguardo, con fare desolato. Vedo Wynona Ryder con una benda nera su un occhio, e le è spuntato anche un tricorno di pelle in testa.

“Una bella sfortuna.”

“E la colpa non era neanche nostra, ma dell’autista del furgone,” aggiunge. “Quando ci hanno riportate indietro abbiamo fatto contenti quelli che ci avevano detto che non era un viaggio per ragazzine, e che stavamo sbagliando tutto. A te lo dicono mai, che sbagli?”

“Come?”

“No, a te non lo dicono che sbagli, tu sei un bravo ragazzo.”

“Se mi dicono che sbaglio? Certo, lo dicono anche a me, che sbaglio tutto,” contesto. Lo dico con convinzione, e vorrei anche portarle un esempio, ma non mi viene in mente niente. “Figurati, me lo dicono almeno una volta al… alla settimana.”

“A casa era uno strazio, sempre lì a darmi della pazza immatura. Ci riempivano di consigli, e fai questo, e non fare quello… ma come si faceva ad ascoltarli? Non erano credibili, perché si vedeva che non erano felici.”

A questo punto non so più cosa dire. Lascio passare qualche secondo di silenzio, poi torno a fissare il telescopio steso sul pavimento. Afferro il tubo, e mentre Pinocchio gioisce per essere diventato un bambino, mi avvicino porgendole la mano.

“È stato un piacere fare affari con te,” mi viene da dire. Una bella frase scema. Lei non ci fa caso e mi stringe la mano con energia.

“Vai mai a camminare in montagna?” mi chiede.

E questa che razza di domanda è? Mi sta forse invitando a fare un’escursione con lei? “Qualche volta,” rispondo.

“Se ti può interessare, vendo anche uno zaino da quarantacinque litri per trenta euro,” mi propone. Ok, niente invito, c’è di mezzo solo uno zaino. Sollievo! Sollievo? Forse dovrei chiederle se me lo vuole far vedere, ma mi è venuta voglia di tornare a casa, all’improvviso mi sento esausto come quando esco da un museo.

“Ci faccio un pensiero, grazie.”

“Sai dove abito, e dopo le sei e mezza mi trovi sempre a casa.”

“Va bene, buonanotte.”

Scendendo mi immagino lo zaino che è rimasto da Agnese. Rosso con i ganci neri. Non me l’ha detto, il colore, ma mi sembra di averlo intravisto in una delle sue foto. Fa sempre freddo fuori, però almeno non c’è la nebbia dei giorni scorsi. Adagio il telescopio sui sedili posteriori, soffio una nuvola di fiato nell’aria gelida ed entro in macchina.

Sono seduto in auto, nel piccolo parcheggio da dieci posti davanti al condominio dove abita Agnese, dalle sei e dieci. Sono passati otto giorni da quando sono venuto qua la prima volta a prendere il telescopio.

Le notti scorse ho inventato parecchie volte il nostro incontro. Ieri ho pure sognato che Agnese mi voleva mostrare il suo tatuaggio. È stato un sogno agitato: io la prego di non farlo, ma lei, mentre mi urla in faccia che anch’io ho sulla schiena un tatuaggio uguale al suo, all’improvviso si volta e si solleva la felpa… ma a quel punto mi sono svegliato, con un crampo terribile al polpaccio sinistro.

Comunque sono qua, e alle sei e ventidue Agnese entra dal cancello del suo condominio in bicicletta e sparisce dietro al palazzo. Dopo un paio di minuti vedo sollevarsi le persiane del suo appartamento. Vado.

Il cancelletto e il portone di ingresso sono solo accostati, così salgo senza annunciarmi al citofono. Arrivo davanti al suo portoncino e suono il campanello. Lo zerbino è sempre rovescio: allora è un vizio. Mentre attendo che mi apra mi assale per un attimo uno sciocco panico da posto sbagliato, un panico che non si addice a una semplice visita per l’acquisto di uno zaino. Alla fine però compare Agnese e tutto si dissolve. Ha il telefono in mano e mi mostra le fossette. “Ciao,” sussurra. “Ciao, sono qui per lo zaino,” sussurro anch’io. “C’è qui un mio amico astronomo mamma, ti richiamo dopo” dice al telefono, stavolta a voce alta, e la parola amico è per me, perché la pronuncia guardandomi negli occhi.

Indossa dei jeans e un maglione rosso, e le sento addosso un profumo fresco e fruttato. È strano, sono contento di vederla, ed è come se la conoscessi meglio dell’ultima volta che l’ho vista.

Mi appoggia una mano sul braccio e mi accompagna dentro. “Allora, sei riuscito a vedere la macchia rossa di Giove?”

Zio Wiggily

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